LA MAGICA SENSAZIONE DI ESSERE VISTI
NS Talks: Buongiorno, Elena, benvenuta. Partiamo dai tuoi inizi: ad un certo punto decidi di lasciare casa, molto giovane, per andare a Roma. Ci racconti questo momento della tua vita? Avevi già un’idea chiara “vado a Roma, voglio fare l’attrice” o sei andata via per andare, per andare alla scoperta, per capire meglio cosa avresti voluto fare.
Dici una cosa importante, nel senso che la cosa più significativa è stata proprio l'allontanarsi, il viaggio. Esattamente quello, diciamo, il processo della ricerca di un'identità che a casa mia non riuscivo a focalizzare. In realtà le ragioni sono svariate ma non c'entra non c'entra la mia famiglia. Ero io che non riuscivo a vedermi a casa mia, forse perché il riflesso che ti danno gli altri è sempre distorto. Da ragazzino, da bambino, sei sempre visto e inquadrato in qualche modo, anche involontariamente etichettato. E questo guscio mi opprimeva, mi impediva di vedere chi fossi e che cosa desiderassi. Non riuscivo a scrollarmi di dosso questo sguardo. Poi ti devo dire che il percorso che mi ha portato a fare questo lavoro è bizzarro, perché io ho cominciato a fare recitazione un po' più seriamente appena finito il liceo, perché la migliore amica del liceo, Giulia, aveva fatto un corso, credo molto anche... così... semplice, senza grosse ambizioni.
Dopodiché, però, finito il liceo, io ero convinta che avremmo passato tutta l'università insieme fianco a fianco, culo e camicia, invece mi ritrovo da sola perché lei prende e va a Roma a fare un corso di recitazione serio, privato. Privato lo dico perché all'epoca io non sapevo neanche dell'esistenza dei corsi pubblici di recitazione, cioè la recitazione non era una possibilità reale, era come dire "e poi faccio anche... mi occupo anche di, non so..." Per me aveva la stessa distanza che può avere per qualcuno dire "voglio andare sulla Luna", cioè una cosa che è carina da immaginare, ti compri il telescopio, guardi dal balcone ma certo non immagini che poi ci andrai, no? La distanza che c'era tra me e questo mestiere era proprio la distanza del ciò che non è possibile, apparteneva soltanto... quindi non era neanche un desiderio reale, non era "voglio fare l'attrice", era "voglio togliermi dalle palle da questo posto, come posso fare per allontanarmi?", perché ovviamente io poi iniziai a fare scienze della comunicazione. E in realtà chiesi a mio padre se potevo fare un anno sabbatico. Mi disse "Manco per niente, fai l'università". Quindi mi iscrissi a Scienze della comunicazione, che era divertente, era bella e mi interessava, ma anche contestualmente non era assolutamente quello che volevo fare. Da ragazzina avevo avuto molte passioni, prima fra tutte la musica, il canto, avrei voluto fare la cantante. Insomma mi è apparso chiaro da sempre, tanto che avevo desiderio di esprimermi forte e anche che non volevo assolutamente lavorare, c'è nel senso non volevo entrare in quel modello con gli orari prestabiliti, con l'idea di fare qualcosa che non appartenesse esattamente al mio desiderio, cioè l'idea di "bisogna guadagnare, bisogna lavorare, bisogna...", mi veniva l'angoscia solo a pensarci, e quindi diciamo che ho organizzato tutto, naturalmente con una discreta fortuna che mi ha concesso di farlo, perché non è che basta pensarla 'sta cosa. Però ho organizzato tutto affinché si muovesse, diventasse reale. Comunque, te la sto facendo lunghissima.
Allora io sono partita dopo... ho fatto due anni di scuola a Torino, di teatro, in realtà una di teatro, una di dizione, non di dizione – di doppiaggio, dove saltuariamente si facevano anche dei cortometraggi molto amatoriali. Però ebbi il primo diciamo rapporto con la macchina da presa. E in questa occasione incontrai in entrambe le scuole due insegnanti interessanti che fecero su di me questa operazione magica che fanno gli insegnanti secondo me – io poi sono sempre alla ricerca di maestri, quindi sono ancora, ancora, eh?, ancora – e mi diedero quello che mi mancava, cioè la sensazione di essere vista. Che è probabilmente il primo tassello che ha a che vedere con il narcisismo che c'è dentro questo mestiere: cioè il desiderio di essere visti ma nel senso di riconosciuti, non visti nel senso di esibiti e adorati, ma visti nel senso che qualcuno aveva visto dentro di me un potenziale che io non sapevo di avere. Sentivo di avere una necessità, ma non l'avevo affatto messa a fuoco. Nella mia vita è sempre stato l'apporto degli altri a restituirmi il coraggio e anche lo sguardo tale per il cui io potessi effettivamente poi dire "ah, ok". Quindi è come se mi attivasse e tuttora continua a essere così, cioè, se io ho lo sguardo di qualcuno che si aspetta qualcosa da me – questo se vuoi, c'è anche degli aspetti inquietanti, però su questo magari non ne parliamo – però mi si attiva qualcosa, si attiva proprio il palcoscenico. E come se fossi chiamata a mettere, a mettere le mani dentro qualcosa di più, di più profondo, di sconosciuto a me. Ed è lo sguardo dell'altro che lo attiva. Arrivando al dunque, a un certo punto ho scoperto che c'era una scuola di recitazione – ovviamente c'erano un sacco di scuole di recitazione private, bellissime, fighissime – a cui mio padre mi disse che non avevo nessun accesso possibile perché appunto non erano nelle nostre possibilità e secondo me neanche nella nostra, nella sua la mia famiglia, insomma concezione cioè "se vuoi fare qualcosa di non ordinario a maggior ragione te lo devi guadagnare, no?". In realtà si è rivelata una scelta molto intelligente da parte sua, che non credo pensassi sinceramente che io poi l'avrei fatto però invece per me fu un grande stimolo. Scoprii che c'era Centro Sperimentale in maniera molto analogica. Feci domanda e incredibilmente, perché adesso se ci ripenso a come ho studiato il provino, a come mi sono preparata, alle foto che ho mandato... veramente topo di campagna totale, nel senso, non avevo nessuna, non avevo nessuna malizia, nessuna malizia, non avevo... la mia intenzione era pura e i metodi erano molto grossolani ed ero completamente ignara del sistema. Questo poi naturalmente l'ho capito dopo. No, lo dico perché adesso invece mi sembrano tutti molto sul pezzo, molto svegli, molto... e io invece ero veramente – non parliamo di 100 anni fa insomma – però una naïveté che stento a riconoscere e che però ha mantenuto puro il desiderio, no, senza fregnacce, senza che fosse inquinato da cose superflue, dal mio punto di vista. E morale della favola, faccio questo benedetto provino. Mi prendono, dunque mi prendono al propedeutico. No, prima faccio la prima selezione, succede una cosa bizzarra perché io abitavo ad Asti, facevo la spola Asti-Torino con un treno di merda delle 6:33 per andare a lezione alle otto. Così mentre vado in stazione con una mia amica, la sera, perché l'accompagno, aspettavo la risposta del propedeutico del Centro Sperimentale, facciamo il biglietto per Torino, sulla macchinetta escono due biglietti, uno per Torino e uno senza data, intercity per Roma, che sembrava il biglietto del nonno, capito, il nonno defunto che ti manda dal paradiso il biglietto per la felicità, no? Per lì stavo in questa stazione vuota con questa mia amica Francesca, carissima, con questo simbolo del viaggio che ti dice "parti! poi vediamo, tu intanto parti!" Quindi io mi sono sentita molto coraggiosa a partire. Anche questo adesso fa un po' ridere, però lì per lì era veramente un salto nel buio: ero fidanzata, ero anche... fossi particolarmente ligia, però avevo, come tutti, la mia realtà, no? Poi ero anche piccola, avevo vent'anni, ma forse era un po' più piccola dell'età anagrafica. Vabbè, insomma vado faccio propedeutico, mi prendono. Arriviamo a Roma finalmente e lì è cominciata questa cosa stra... Intanto c'è un momento nel Centro Sperimentale in cui ti prendono e pensi te la menano, c'è, te la menano, in realtà è una scuola d'eccellenza, vengono scelte poche persone, c'è una selezione molto grande quindi è normale che tu all'inizio senta un po' di, come dire, ti specchi in qualcosa che ti restituisce un'immagine di te speciale che non corrisponde a quello che tu senti dentro. Cioè tu dici sì, io ho fatto una scena, probabilmente ho un talento, ma tu non senti di essere in possesso di strumenti, no? Dici solo "cazzo, mi hanno scelto, sono in 12 o 16, quante eravamo noi su 600? Quindi cos'è che non sto capendo?" C'è un momento nel quale ti puoi anche un po' esaltare. C'è l'armadietto dentro cui mettere le cose, come nelle scuole americane, ci sono le persone che vengono da... no, come dire, si costruisce un immaginario che può facilmente toglierti, distrarti dall'impegno invece duro che questo lavoro implica anche nello studio perché poi il Centro Sperimentale è una scuola bellissima che ti insegna tantissime cose, forse l'ultima delle quali è recitare, nel senso che recitare dal mio punto di vista non è qualcosa che si insegna, si insegnano tantissime cose, si possono affinare, imparare moltissime tecniche, avere moltissimi strumenti per spogliare quello che sta attorno al proprio nucleo e farlo emergere. Ma è imparare tantissime cose: ad ascoltare, a osservare, a gestire lo spazio, a studiare un testo, ad analizzarlo. Ma tantissime cose hanno anche molto a che vedere con il forgiare il proprio carattere per questo lavoro, scoprire di averlo o non averlo, non avere un'attitudine caratteriale adeguata perché io penso – poi il mondo sta cambiando talmente velocemente – che io mi rendo conto che un atteggiamento un po' novecentesco, che mi tengo stretta, però ce l'ho, nostalgico novecentesco. Io credo che serva un carattere di un certo tipo per resistere ed esistere proprio per essere, per come dire, non piegarsi alle paure e riuscire a essere se stessi, riuscire a diventare se stessi. Credo che ci voglia un carattere speciale, speciale non nel senso di meraviglioso, nel senso di particolare, e che questo si impari, si scopra di sé, come evitare di essere sotto scacco rispetto al giudizio degli altri, lo sguardo degli altri, come far sì che questa cosa diventi un'arma in tuo possesso. E come vivere diciamo all'interno di questo equilibrio molto ondivago tra grandi soddisfazioni, grandi mancanze, grandi paure, enormi perché è banale quanto realistico dire che comunque questo lavoro impegna il corpo, la mente, la faccia ed è molto facile identificarsi con i propri successi e con le proprie sconfitte in maniera anche pericolosa.
NS Talks: Mi ha colpito quello che hai raccontato sulla musica. La tua prima passione, la tua prima inclinazione artistica. Poi l’istinto, il caso, il desiderio, il biglietto trovato alla stazione ti hanno portato a Roma a fare una cosa diversa. Oggi che ruolo ha la musica nella tua vita, nella tua giornata, nel tuo lavoro, c’è ancora la eco di quella prima passione?
Allora la musica, la musica è la fonte artistica di gioia maggiore nella mia vita. Io presumo che in realtà valga quasi per tutti gli esseri umani, però. Ho una formazione musicale potente, familiare. Ho studiato pianoforte che non so veramente suonare bene, ma insomma, non importa questo. Però avrei voluto fare la cantante, come ti dicevo, e credo che... perché cantare ha un presupposto, secondo me fondamentale, che è quello che non si finge. Cantare è questa vibrazione che ti parte dalle corde vocali, dalla pancia e attraverso il tuo respiro esce. Parlo ovviamente per gusto, io adoro un certo tipo di cantanti che sono in grado diciamo di... cioè mi sembra diciamo il luogo nel quale c'è uno svelamento dell'anima e c'è quindi l'apoteosi di quello che dicevo prima dell'essere visti, no, di dire "ragazzi questo sono io, queste sono le mie viscere, queste sono le mie mutande, questo è l'odore che emano, a volte buono a volte no, amiamoci per come siamo, e io per farlo come primo gesto mi mostro per come sono". Poi diciamo la psiche è contorta e quindi c'è il tuo mestiere che invece mette delle maschere. Io passo il tempo a mettermi delle maschere e a svelare qualcosa di me attraverso delle maschere. Quindi in realtà io ho fatto un'operazione, una scelta poi meno coraggiosa. Mi rimane, dal mio punto di vista sempre, per come sono fatta io, per me recitare comunque è questa operazione che si muove sul filo della realtà e della veridicità, ma lo fa appunto tramite parole di altri, tramite set, messinscene costruiti da altri, montati da altri, musicati da altri. E quindi mi sono fatta diciamo strumento di altri e non di me stessa. Aspetto il momento in cui riuscirò a fare una crasi fra queste due cose, cioè vorrei riuscire a diventare... è una cosa che ricerco sempre, per carità, però è una cosa che so solo io, magari qualcuno intuisce alcuni momenti di verità, spero, immagino, presumo, mi auguro di averli, diciamo, raggiunti e quindi anche potuti condividere in alcune circostanze, in alcune performance, diciamo, attoriali, così, no? Però sono attimi, no, non è mai come il potere di una canzone per il pubblico, non raggiungi mai quell'orgasmo vero e proprio, no? Bene. Questo, diciamo, è l'aspetto potente della musica, quindi certo, mi preparo con la musica, mi preparo... ma io mi preparo proprio la vita con la musica, mi alzo, ascolto la musica, mi preparo per vivere. Se sono triste, ascolto determinate cose perché so che mi porteranno altrove. È un continuo sistema che mi fa fluttuare da un'esperienza all'altra, no? Dicevo proprio l'altro giorno, guarda, ad Andrea, il mio fidanzato, compagno, non si è ancora capito come bisogna dire, comunque dicevo: "Ma quando litighiamo, pensa come sarebbe interessante se quello di due che ha un briciolo di lucidità in più, nel momento l'apice del dramma apicale, mettesse una canzone buffa". Tu prova a pensare di mettere tipo la colonna sonora, è chiaro che si smonta tutto. Cioè, come dire, perché la musica rivela i ritmi anche nascosti delle cose, no? Svela le contraddizioni, può veramente rappresentare... come funziona nel cinema... tu vedi delle scene drammatiche tremende magari dietro hanno una musica invece che va a contrasto. Io pensavo, dicevo, devo ancora provarci perché da allora non abbiamo avuto uno di quei litigi che merita una soundtrack insomma... però per farti capire cioè io mentre discuto penso "certo starebbe bene questa musica qua", e già mi sono distratta e non ho più voglia di litigare perché mi è partito il ritmo, capito. Quindi insomma per quanto riguarda questo ti devo dire... il sogno è quello di un regista che... o una regista che mi dica "facciamo un film", ma non musicale, non un musical, che secondo me in Italia per adesso è meglio se non lo facciamo perché magari sbaglio, eh, però per adesso... mi sento che la propria storia di un cantante… vorrei fare la storia di una cantante anche fallita, anzi con la decadenza vado a braccetto, va benissimo, perché la decadenza, come dire, comunque concepisce il fallimento e quindi tutto è più facile no. Ah, mi sono dimentica di dire una cosa, un'altra delle cose per cui la musica è fantastica e che, ed è terribile e paurosa, è che tu hai uno spartito e c'è un'oggettività. Se tu prendi una stecca, hai preso una stecca, c'era quella nota là e tu l'hai sbagliata. Se sei virtuosissima puoi confondere il pubblico e fare in modo che quella scivolata si esprima, che diventi addirittura una cosa magica, ma nella maggior parte dei casi, soprattutto in certi tipi di musica, la lirica, anche un certo tipo un po' di musica leggera, se è sbagliato – è sbagliato. Esiste un criterio oggettivo che nella recitazione non c'è. Siamo tutti fenomeni e cani a seconda di chi ci guarda. Io ho sentito dire della gente, ho sentito, ho sentito dei commenti sugli attori straordinari smontati in 3 secondi. Perché non esiste un criterio oggettivo per definire quella persona. Perché è come la gente per strada: ti piace quello ti fa simpatia, si, no, boh, perché c'ha il naso adunco, perché c'ha il naso a patata, perché c'ha le fossette. Appartiene a qualcosa di inconscio che non ha niente di oggettivo, niente, mentre – almeno sempre dal mio punto di vista – invece, la musica qualcosa di oggettivo ce l'ha. L'errore nella musica è un errore, nella recitazione casca in piedi. Quindi io che ho il terrore di non essere sufficientemente brava, nella recitazione non sarò mai sufficientemente brava, pazienza, nel senso che per qualcuno quella cosa sarà addirittura un valore, no? Non entro in quella competizione con me stessa che pretende la perfezione.
foto di Dirk Vogel
NS Talks: Il pubblico di solito vede solo la parte bella del tuo mestiere: la popolarità, l’attenzione dei media, i Festival, il successo… il divertimento, ma chi conosce i set sa quanto duro sia il lavoro che fai, lo studio, la preparazione, le pressioni, la fatica anche fisica che richiede. Tu sei stata una.. giornalista, una marchesa, un’attrice agli esordi, una mamma single, una poliziotta. Quanto te lo porti ancora addosso un personaggio dopo aver finito un film? Qual è, diciamo, la dialettica fra la finzione e la realtà nella tua vita? Come entri in contatto con il personaggio che stai per interpretare e come poi ne esci ?
Iniziare a studiare un personaggio è in assoluto il momento più gratificante. Perché avrai capito che c'è un problema con l'errore, e quello è fantastico perché ancora non ti sei messo in gioco veramente. Stai studiando. Tutto è possibile. Il regista è in quel momento ancora senza macchia, non ha ancora sbraitato sul set o non si è ancora mostrato nelle proprie debolezze, tu neanche, sei appena stato scelto, c'è un'aspettativa fantastica nei tuoi confronti, alta. La produzione in genere in quel momento è accomodante, perché vuole fare in modo che tutto venga preparato e che insomma, è un momento fantastico perché tutto è possibile. Potresti essere sul punto di girare il più bel film della tua vita, ma forse dell'umanità, non lo sai, nel senso, può darsi che tu sia lì-lì per fare qualcosa di... insomma – l'attesa acquista questa meraviglia dentro, l'attesa di... dall'attesa di un bacio all'attesa di un film. E tutto è possibile. E tu anche, sei un attore straordinario, perché ti senti in grado di fare, almeno io in preparazione mi sento in grado di fare delle cose eccezionali. E poi soltanto nel momento della verità, quando è girata la scena e dici "ma col cazzo che è venuta come volevo", che ti deprimi e dici addio, no?
E qui realizzi, come dire, che il rapporto con la realtà è sempre deludente e soprattutto, più che deludente, no, sbagliato, non è deludente, è sempre traditore. Le cose che ti sembrano migliori spesso non lo sono e viceversa. Comunque diciamo tutta questa vaporosità dell'attesa e della costruzione così se ne va, evapora e rimane la realtà. La realtà è la parte diciamo artigianale. Io non ho mai narrato me stessa come in bilico tra personaggi e realtà, tra finzione e realtà. Io diciamo che cammino, credo, nella mia vita, sempre, un po' in bilico tra stati psichici di immedesimazione con la realtà o di distacco. Quando recito qualcosa, credo, cerco, faccio tutto quello che posso, mi esercito per immedesimarmi con quello che accade più che con chi sono. È un lavoro di studio del contesto, di respiro. Non ho mai avuto nostalgia dei personaggi che ho fatto. Non ho coscienza di quello che ho fatto. Spesso quando rivedo le cose che ho girato... se ripenso agli spettacoli che abbiamo messo in scena non mi sembra plausibile di essere stata io ad averli fatti. Cioè, non capisco come. Mi riguardo e dico: "Ma davvero?" Ma non perché sono entusiasta di quello che ho fatto, attenzione. Proprio non vedo, non credo di essere io. Cioè, non so come dire... ho un distacco immediato rispetto a quello che faccio. Poi anche nostalgia soprattutto degli incontri che si fanno sul set e sui momenti di grande ascolto di verità che sono commoventi. Devi sempre avere il culo che qualcuno le riprende nel modo giusto, ma ci sono dei momenti di... profondi, di bellissima estasi in cui tutto si connette tra tutti i reparti e questi sono dei momenti comunitari entusiasmanti che, ripeto, non è detto che poi si trasformino in contenuto filmico perché lì ci vuole anche, come dire, una destrezza filmica, la capacità tecnica di essere in grado di acchiappare il momento e qualcosa che sta veramente tra magico e... e anche la fortuna... non ha soltanto a che vedere con il talento. È un po' come le vacanze molto ben riuscite. Cioè tu metti tutto affinché le cose accadano nel modo... poi magari viene una bella vacanza e te la ricorderai tutta la vita. Spesso sono alcuni imprevisti e alcune situazioni creano poi delle dinamiche particolari, imprevedibili, che non potevi, che non potevi preparare. Infatti, appunto, quello che ha a che vedere con la preparazione è che si dice sempre ed è tanto vero prepari, prepari e poi. Prepari tanto, ne parlavo ieri con uno sceneggiatore, diceva per fare certe cose, che sono le più belle, scali una montagna e quindi ti impegni, ti compri le scarpe, ti compri lo zainetto, impari a mettere le mani, ecc, ti fai un mazzo quanto una casa per arrivare in alto e scendere 5 minuti con gli sci. E tutto così. Quindi quella preparazione lì è una preparazione che poi ti serve per surfare, per stare, come dire, per essere, perché come sempre la preparazione ti mette nelle condizioni di avere meno paura, di poter essere più libero. Ma di base non ha il controllo di niente. Questo è un lavoro su cui tu non puoi avere il controllo. Non ce l'hanno neanche i registi il controllo che in realtà è il loro lavoro ad avere il controllo. Figurati noi. Zero. Comunque io finiti i film c'ho soltanto un momento di fastidio per la libertà perché dico "è adesso che nessuno mi chiede niente, io dovrei essere in grado di chiedere qualcosa a me stessa e non me ne frega niente", perché passi da un momento di grande attività, il corpo è chiamato a essere sempre pronto a attaccarsi e staccarsi, soprattutto nel cinema, no, ad avere questa sveltezza nella capacità di stare con gli altri, di cambiare umore, di stare dentro il personaggio, di uscire dal personaggio, di essere gentili, di essere perentori, se ce n'è bisogno. Cioè ti viene richiesto di essere una persona molto prestante, molto in grado di gestire tante situazioni diverse e poi improvvisamente non ti viene più chiesto niente. Quindi sono sempre là, è un fatto di sguardo, io patisco immediatamente dopo – sta uscendo il profilo di una che c'è un problema di frattura – ma comunque probabilmente è la verità. Comunque, patisco un po' questa mancanza di impegno, ma non è la nostalgia del personaggio, il personaggio cristallizzato è lì nel film e anzi sono felice che abbia un tempo. Però, per fare un'ulteriore divagazione non richiesta, mi è successo e forse mi sta per risuccedere e sono già qua che mi sfrego le mani, ho la bava alla bocca dall'entusiasmo, di dovere preparare qualcosa e poi di doverlo frizzare, preparare, poi avere… per delle ragioni produttive o anche perché ogni tanto sia pure il lusso di avere del tempo per preparare le cose per cui magari inizi adesso a ragionare su qualcosa che girerò a marzo, che è una cosa che non si è mai vista nella mia storia personale fino ad ora, e sto qua che proprio... no? E quindi questo studio sul personaggio un po' come quando ripetevi la lezione di italiano da una settimana all'altra ha tempo di sedimentare. Quando sedimentano le cose, poi si trasformano sempre proprio come con le stagioni, non c'è niente da fare, fanno dei percorsi più... insomma, questa faccenda della sedimentazione del tempo è essenziale, così come quando uno litiga, vorrebbe avere la risposta pronta. Il giorno dopo ti viene in mente la risposta fantastica che avresti dovuto dare, ma purtroppo in quel momento non potevi perché non avevi quello spazio mentale. Secondo me è lo stesso tipo di processo che ti porta a fare delle scelte più profonde, quindi i personaggi hanno bisogno di tempo, tutto ha bisogno di tempo. Tempo è relativo, quindi concluderei così.
NS Talks: Hai parlato di prestazione sul set, di quanto ti senti chiamata a “performare” psicologicamente, fisicamente, mentre realizzi un film o una serie. A questo proposito che rapporto hai con i tuoi colleghi attori e con i registi che ti dirigono? A volte vorresti riscrivere, rirecitare o addirittura dirigere diversamente una scena? Intervieni se qualcosa poniamo in sceneggiatura non ti piace, la discuti, com’è Elena sul set?
Io al momento non sono un'attrice-autrice. Amo moltissimo – perché mi conforta e mi consola e mi dà, come dire, uno spazio circoscritto – amo moltissimo i registi in grado di crearti questo spazio sicuro che è fatto di certezze. Le certezze del regista, le certezze del regista sono diciamo un tema secondo me molto importante. E come se gli attori, e come se io, dai parliamo di me, come se io fossi un'attrice bambina, e come con i bambini, insomma, c'è la necessità di dare dei limiti per contenerli, per evitare che si spaventino. Io sono uguale: se tu mi dai un limite, io sono contenta perché lì dentro posso fare un sacco di casino. Se io sento che tu questo limite non ce l'hai, non lo sai dare perché tu sei... magari lo fai, lo dici, però si dà il caso che ovviamente qua la sensibilità non manchi per cui è chiaro che me ne accorgo se stai mentendo o no a te stesso e non a me perché ti diverti, ma perché non lo sai, sei in panico se hai paura o pensi di aver fatto qualche scelta sbagliata. Se tu questa cosa non sei in grado di trasmetterla, io me ne accorgo e inizio a dubitare di te. A quel punto è panico, nel senso che la nave senza il comandante è un casino. Intanto perché gli attori non ci sono soltanto due in scena, per cui iniziano ammutinamenti vari: quello che cerca di ammazzare il regista, quello che cerca di sostituirlo, quello che dice vabbè, la faccio come viene, perché tanto quello che si disamora, quello che ha paura di fare una cagata perché non si sente protetto, non si sente trainato. Poi oltretutto uno spazio sicuro è lo spazio dove tu oltre a fare un sacco di casino puoi anche sperimentare, sbagliare e quindi probabilmente scoprire delle cose inusuali, dove ti viene richiesto di andare un pochino oltre la consuetudine, la tua consuetudine, quello è l'ideale. Io quando trovo dei registi, come dire, così, che non significa che non siano interlocutori, eh, diciamo poi parliamo delle scene, parlo proprio della sensazione e della gestione del set. Il set è un posto con una struttura piramidale e necessita, secondo me, di questa struttura. Per me, per come ragiono io, per adesso sento che quello è il luogo dove io sto meglio. Ripeto, questo però significa altresì che comunque se il regista mi sceglie, io desidero che abbia fiducia in me, no? Io mi fido di te, io so che tu hai... sai che fine vuoi fare, sai che cosa puoi volere da me. Vorrei che vorresti da me di più di quanto sai di volere. Cioè, vorrei, come dire, che ci fosse una spinta sempre verso qualcosa di sconosciuto, di altro. Questo perché di fare i compitini non me ne frega niente, mi annoia soltanto pensarlo. Però contemporaneamente, se io sento che tu hai fiducia in me, io ho imparato negli anni a capire se una scena funziona, se non funziona, nella maggior parte dei casi, poi non è che... non è una regola aurea. Quindi sì, io intervengo spesso, intervengo, improvviso, porto proposte, se c'è qualche battuta che non entra, che non... soprattutto delle azioni... io per esempio soffro molto quando mi viene detto "devi dire questa battuta con quel movimento". Ora siamo sempre lì: se hai di fronte una persona che è in grado di sentire il lavoro di un attore ed è in grado di comprendere che quella cosa lì è organica – è un conto. Quindi tu la provi e poi anche se non ti sembrava così invece aveva ragione lui, te ne accorgi subito perché tu attore lavori con corpo, senti se la cosa è una via plausibile o no. Poi è chiaro che trovi dei registi che sono in grado, ripeto, di portarti in zone sconosciute. Quindi veramente un rapporto di fiducia reciproca. Spesso quando c'è la paura, questo... questo... paura di sbagliare, di esagerare, di muoversi in zone sconosciute, questo rapporto di fiducia si incrina e lì diventa difficile perché diventa un po' una lotta, no? Cioè, io questa cosa non la voglio fare, non la voglio fare perché mi sento a disagio, perché non è organica, perché sono finta! Sono finta! Sono finta! Se sento che sono finta – impazzisco. Devo per forza trovare una chiave. Mi è capitato la maggior parte delle volte di avere invece dei dialoghi molto molto invece costruttivi. Però non sempre, non sempre. E sulle scene intervengo, trovo che l'apporto... come dire... che nessuna categoria dovrebbe essere troppo affezionata. Sceneggiatore scrive, penso che se uno gli cambi una battuta – non va bene. Il regista, appena se ne va lo sceneggiatore, non vede l'ora di cambiare le battute. L'attore, a sua volta si sente l'autore di quella cosa lì, perché poi è il corpo. In realtà, diciamo idealmente questo tridente dovrebbe muoversi in contemporanea. E questo è il punto, no? Gli sceneggiatori non dovrebbero finire il loro lavoro, o forse soltanto in quel momento in cui è conclusa la sceneggiatura, ma dovrebbero partecipare alla rilettura per come dire sentire poi questa cosa qua. Gli attori e il regista che stanno sul set sempre, chiaramente, poi a seconda della messa in scena, devono poter avere, secondo me, il diritto di, come dire, di mutuare questa cosa insieme. Non ne farei una questione di orgoglio, insomma.
NS Talks: A proposito di sceneggiatura arriviamo a Una relazione di Stefano Sardo, il film che hai fatto per Nightswim. È un film a te molto vicino, scritto da due persone, Stefano Sardo e Valentina Gaia, che frequenti anche nella vita privata. Come l’hai vissuta, come è stato lavorare su quel set, in che modo è stato diverso lavorare su questo progetto rispetto ad altri?
È un film importantissimo per una miriade di ragioni. È difficile parlarne perché tocca una quantità di cose intime... è stato un film intimo, è stato un film di relazioni. Mi fa ridere perché è lo stesso titolo, però è così. Stefano Sardo che l'ha scritto con Valentina Gaia e l'ha diretto, ha fatto l'operazione principe che è quello di darmi fiducia, ha fatto proprio... cioè io penso poi alla fin fine a che lui mi abbia scelto non esattamente, esclusivamente per l'aderenza al ruolo, ma per la fiducia del fatto – questo lo credo io, non me l'ha detto lui, eh – però io credo che lui mi abbia scelto perché aveva fiducia nel fatto che io avrei capito, che avrei ascoltato e che mi sarei mossa in maniera coerente all'idea sua di Valentina che era un'idea che presupponeva una lettura della vita che condividiamo. Cioè, io condivido profondamente – che non è necessariamente, come dire, non è obbligatorio per far parte del film, non è che devi condividere l'idea che ci sta dietro – però in questo caso aveva molto senso invece, io condividevo non solo quello che il film racconta, cioè non solo questa modalità diciamo tenera di concepire le relazioni, i passaggi fondamentali della vita e il tentativo di tenere tutto insieme. Insomma, la sua modalità di raccontare è una modalità di racconto che io ho sempre sentito affine e ho anche messo in pratica nella mia vita, tra l'altro, tra l'altro in maniera abbastanza inquietante, quasi contemporaneamente al film. Ma questo perché la vita fa ridere, insomma, non è stata una scelta. Il film aveva secondo me bisogno – tant'è che l'abbiamo girato durante il lockdown, quindi tutti con la mascherina, questa cosa delle persone senza facce è stata abbastanza strana – però aveva bisogno di molto ascolto. E io e Stefano ci conosciamo da anni, ci vogliamo bene, ci capiamo, ci siamo sempre capiti molto bene. E io ripeto, quello che mi ha entusiasmato è stata questa... per lui era un esordio, per me era la prima volta che qualcuno mi affidava un ruolo così distante dall'immaginario tipico che si è adagiato su di me. È la prima volta che qualcuno diceva... si allontanava dallo stereotipo, stereotipo che per carità ho anche io contribuito a costruire ma che in buona parte si basa, diciamo, su questioni estetiche, credo, spero. E quindi vedi anche qua quello che fa la differenza è la fiducia. In questo rapporto fondamentale è stato Guido Caprino, il protagonista del film, che è un attore straordinario col quale io lavorerei su tutti i film, fare insieme tutte... cioè proprio tutti, che è un attore mobile, è un attore inquieto, è un attore, continua sempre alla ricerca ed è un attore che crede nell'ascolto e nel valore delle storie e che dà un senso di profonda serietà e leggerezza a questo lavoro insieme. È proprio una persona di cui anche in questo caso condivido lo spirito.
Quindi diciamo che l'eccezionalità di questo film per me è stato il tema del film è stato un personaggio che non avevo mai avuto l'occasione neanche di sfiorare, è stato il rapporto con Stefano e Guido fondamentalmente, ma anche con gli altri, però è stato il clima, un clima di fiducia e di amore. Io non ho mai sentito di essere messa in discussione, ma che semplicemente magari in certe occasioni bisognava andare più da una parte o più dall'altra. Ma ho sempre sentito che, come dire, questa storia andava raccontata in questo modo e abbiamo lavorato, abbiamo lavorato, abbiamo lavorato bene, abbiamo lavorato io e Guido da soli, io e Stefano, io, Guido e Stefano. Valentina sul set ha dato – ma non solo nelle letture – degli apporti naturalmente importantissimi per aiutarmi ad avvicinarmi al personaggio che ha scritto lei che chiaramente prendeva spunto da lei stessa per cui insomma era fondamentale. Però poi c'è stato anche il rispetto della distanza che io ho preso necessariamente, chiaramente tu hai un personaggio scritto su carta e dopo di che lo metti addosso, questo cambia e magari diventa altrettanto vero, un po' più distante da come tu immaginavi, ma vero. Allora la capacità di compiere quella piccola rinuncia rispetto a ciò a cui si è affezionati, no? Io probabilmente non rappresentavo qualcosa di così somigliante al personaggio per come era stato concepito inizialmente. Però grazie a questo amore, questa fiducia, si è creato un personaggio che io credo sinceramente, profondamente, che abbia una sua verità. È un personaggio che ho amato tantissimo fare, ma che ho amato tantissimo poi sullo schermo: l'ho visto e mi è piaciuto quasi di più di quando l'ho fatto, no? Ho visto proprio personaggio, l'ho visto, non mi è successo molto spesso. Poi ripeto, questo film speciale per me, per cui non sono sempre così benevola rispetto ai miei lavori, assolutamente no. Però in questo caso è proprio... è stato così... mi sono molto... è veramente uno di quei casi in cui la gratitudine e la fiducia si sono mischiati molto bene e lo rifarei. C'è, ne farei un altro con la stessa squadra, no? Non credo che sia facile trovare questa profondità. Qui ripeto, il risultato io adesso ti parlo della mia esperienza, poi è chiaro che l'oggetto filmico può essere criticato, può essere criticabile, può avere dei difetti, potrebbe essere ulteriormente... ancora più compatto non lo so, può avere, come dire, ci sono tante cose che si possono dire sul film che non starò qui a dire ma quello di cui parlo è la mia esperienza. Noi i film li facciamo, sono pezzi della nostra vita, mesi che tu dedichi a qualcosa. E quello che rimane più di tutto per noi che li facciamo non sono i film, è il momento in cui si sono fatti quei pezzi di vita che tu hai dato a quelle persone che loro hanno dato a te. Poi, certo, esiste anche un oggetto filmico, un film che poi tu, quando ci avrai 80 anni ti riguarderai, dirai "oddio", no? Ma quel film lì è più per il pubblico che non per te che l'hai fatto. Perché tu ovviamente avrai sempre un rapporto viziato con quell'oggetto, perché sarà sempre il rimando di questioni personali, di ricordi, non avrai mai un rapporto neutro, non potrai goderlo veramente, no? Quello diventa qualcosa per il pubblico. Quando si dice "questo lo faccio per il pubblico", io penso sempre questo perché io lo vorrei anche fare per me, ma io non potrò mai avere un rapporto vergine e quindi quello che mi resta è l'esperienza. In questo caso l'esperienza è stata quella che vorrei che fosse sempre in realtà.
NS Talks: Torniamo un attimo a quel “segnale” della vita, quel biglietto per Roma alla stazione di Torino che in qualche modo indirizza la tua vita. Ci sono stati altri momenti di questo tipo, che ti hanno, come dire, illuminato il cammino, quando ti trovavi a dover scegliere, a qualche bivio della tua vita professionale?
No. In quel caso è stato un unicum, purtroppo. Sarebbe stato fantastico se mi fossero arrivati continuamente segnali dall'iperspazio, ma non è stato così. Però io sono una persona molto istintiva e allegramente superficiale, nel senso che ho un intuito di cui mi sono sempre fidata. E per adesso m'ha detto bene, che mi dice semplicemente cosa fare e io lo faccio senza farmi molte domande. In questo sono abbastanza superficiale, ovviamente intendo dire che cerco di evitare di arrovellarmi, penso parecchio, naturalmente, ragiono, sono anche cervellotica per certe cose, però il momento della scelta per me è sempre un momento molto istintivo, mooolto istintivo. E di base il criterio è sempre immaginarsi in una determinata circostanza. Mi è successo di dover fare scelte che escludevano cose anche importanti, non soltanto di lavoro. Il benessere, la capacità di essere gradevole agli altri. Cioè se io mi immagino in una posizione nella quale divento, in cui sento un imbarazzo verso me stessa, so che quell'imbarazzo verso me stessa si trasformerà nell'incapacità di essere gradevole. Ora capisco che la gradevolezza è passata parecchio di moda, però io invece la reputo... per me è una cosa importante, una cosa che guardo negli altri e la capacità di mettere a proprio agio le persone è qualcosa alla quale tendo, anelo, e in cui non sono affatto maestra, sia chiaro, però diciamo una cosa che mi interessa e quindi diciamo che come criterio ho sempre usato questo. Questa cosa mi fa... e sono in grado di gestirla in modo tale che io poi potrò essere una persona frequentabile o no? Se non sono frequentabile non la... non la... normalmente la evito. La evito e devo dire che per adesso mi sembra che sia un buon criterio, sia stato un buon criterio, una specie di rispetto della propria natura, diciamo, senza grosse forzature.
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